Firenze. L’arte non è per tutti (parte seconda)

Dopo adeguata preparazione psicofisica, decido di affrontare il museo degli Uffizi. Mi presento quindi alle dieci del mattino, vedo la coda chilometrica alle casse e ci rinuncio. Su consiglio di un addetto mi ripresento verso ora di pranzo questa volta con più successo. Dopo vari controlli in stile aeroportuale, in quindici minuti sono dentro.

Quasi subito inizia la mia personale lotta con le comitive guidate che stazionano davanti ai quadri celebri. Finché uno di questi gruppi rimane impiantato davanti a un quadro è impossibile per un singolo ospite come me avere accesso all’opera, a meno che uno non si faccia strada a gomitate attraverso il blocco umano e non conviva temporaneamente con una piccola massa opprimente la quale ti tratta fisicamente come un corpo estraneo da espellere il più velocemente possibile. Quindi non resta che attendere. Ma attendere quanto? Almeno dieci minuti per gruppo, almeno. Sì perché poi i gruppi si accavallano fra loro, formando un gigantesco quanto inquietante ingorgo. C’è il gruppo dei giapponesi rigidi, quello anglosassone con le chicche spiritose, quello della gita fuori porta, la scolaresca che non ascolta.

Osservandoli ho come l’impressione che chi parla (la guida), parli a vanvera, nel senso che chi ascolta, capti le informazioni in modo tale che il giorno dopo siano completamente dimenticate. Li osservo, alcuni hanno le bocche aperte, altri le espressioni meravigliate, le stesse che faccio io quando mi svelano dei segreti contenuti nella mescola delle gomme delle auto di formula uno. Fantastico, non lo sapevo, ma guarda te. Dopodomani, vagamente, ricorderò qualcosa. Forse. Forse se seguissi la formula uno, chissà.

Mi infilo come un ratto nello spazio temporale fra una comitiva e l’altra. Osservo il mio quadro e tengo la posizione finché posso, come un cecchino all’avamposto, poi lentamente vengo risucchiato da una medusa orientale.

Qualche stanza dopo noto una signora giapponese che fotografa a cazzo. La seguo per diverse stanze. In una contenente nove quadri, fa nove rapidissime foto in primo piano passando subito alla stanza successiva.

Guardi signora che questo è …, importantissimo esponente di…allievo del famoso pittore… ha lavorato nella bottega del…si notino i tratti che riconducono a….varrebbe la pena di soffermarsi almeno qualche istante per ammirare la tecnica pittorica e…c’è inoltre un divertente aneddoto che…”, mi verrebbe da dire. Niente. Lei è già tre stanze avanti, ovvero ventisette quadri dopo di me, che mitraglia con la sua Nikon. E’ come se io andassi in Giappone a fare foto rapidamente casuali a personaggi giapponesi dei quali non conosco nulla e poi al mio ritorno li mostrassi ai parenti nella stessa maniera in cui si mostrano le figurine Panini.

La visita di oggi prevede infine un giro al piano inferiore dove è stata installata una mostra temporanea dedicata all’arte dei paraventi giapponesi. Un’esposizione di paraventi dipinti a mano, lunghi anche più di dieci metri, certuni risalenti anche al medioevo. Insomma: curioso, interessante. L’interno del salone è tristemente poco illuminato, come sono altrettanto tristi i visi dei tre custodi. Nessun giapponese è presente per ammirare i paraventi giapponesi e ciò mi fa sorgere terribili dubbi. E’ come se in un viaggio a Tokio tutti gli italiani snobbassero una mostra sul rinascimento italiano. Anzi, mi guardo intorno e mi accorgo di essere l’unico visitatore del grande salone assieme ad un’altra signora. Uno dei custodi ha lo sguardo che sembra dire “ma davvero vuoi vedere i paraventi giapponesi?”. Un altro sembra dirmi invece “scommetto che farai una visita veloce con altrettante rapide foto, proprio come la signora giapponese ha fatto poco fa coi quadri”. Effettivamente questi paraventi non li capisco proprio, ma comunque mi soffermo perlomeno per cercare di carpire il bello che l’opera d’arte può trasmettere.

La mia giornata termina al crepuscolo con una riflessione: che senso ha tutta questa frenesia fiorentina? Che senso ha passare veloci, cercando di vedere il più possibile se poi l’arte non la si assorbe? Qualcosa rimane?Firenze da questo punto di vista, mi è spesso sembrata un gigantesco McDonald dell’arte.

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